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Sono nato
a Roma il 13 giugno 1957, nel quartiere di Casal Bertone, più precisamente nel palazzo dei ferrovieri che la
foto ritrae in alto a sinistra. Il quartiere, ai tempi della mia
infanzia, era distante ed escluso dalla coscienza urbana, vicino al
cimitero monumentale del Verano e, proseguendo, dall'Acqua
Bulicante con la stazione ferroviaria Prenestina e i magazzini della Rinascente
(ormai soppiantati da un noto ipermercato), delimitati dalla cintura ferroviaria.
Tra i miei vecchi ricordi riaffiora un viottolo in terra battuta che
partiva alle spalle della parrocchia e si dirigevai verso la via Prenestina,
articolandosi nel fatiscente agglomerato urbano che ospitava i famigerati "baresi",
bande di ragazzi che scendevano in goliardiche incursioni nel quartiere indifeso. Insomma, Casal Bertone era topograficamente
isolato, al punto da farmi accostare il quartiere alla visione surreale di
Bunñeliana memoria. Infatti, in qualche rara occasione
ho visto attraversare la piazza da greggi di pecore con pastore e cane al
seguito, come a seguire caparbiamente un tratturo remoto inutilmente seppellito
sotto l'asfalto. Se non fosse stato per le palline di escrementi lasciati dalle
pecore, si poteva pensare ad un effetto speciale cinematografico. Nella stessa
piazza ogni tanto passava un
vecchio su un carretto malandato trainato da un ronzino indolente, e noi ragazzi
chiedevamo in modo irriverente all'uomo che lo conduceva se il suo cavallo
facesse le uova. Il vecchio si adirava immancabilmente minacciandoci col bastone e
apstrofandoci con parole non proprio auliche. Poi si dileguava come se fosse
stato un sogno.
Dalla mia camera potevo vedere Piazza S. Maria Consolatrice e il fianco
incombente, grigio della chiesa. Dalle
persiane socchiuse, ricordo che scrutavo il passare della mia amata. Avevo 13 o
14 anni, ma ancora ricordo le lacrime salate che nascondevo nellla penombra,
tra l'odore del legno delle persiane, e il
dolore, che solo l'amore adolescenziale sa produrre...
un'età che lascio volentieri nello scrigno dei ricordi, pur non rimproverando
nulla alla persona amata e alle circostanze, dato che la causa di quel malessere
risiedeva
nella mia natura emotiva e sensibile. Mi rifugiavo allora nelle
poesie, procurandomi altro male, perché per scriverle mi alimentavo
dello spasimo corrosivo che covavo dentro. Ora mi limito a
farmi aggredire dal tempo, mentre il
mio spirito, immutato, ancora si meraviglia di tutto, persino del mio lento
divenire. Sono sopravvissuto ai cedimenti delle coronarie, risolti grazie
alla chirurgia poco invasiva, come l'angioplastica. Mi sono sottoposto al primo
intervento nel gennaio
del 2001 e il
successivo, nell'ottobre del 2005. Da allora, e per ben due volte, mi sono
considerato fortunato, o quanto meno salvato dalla fine eneluttabile che
la natura mi aveva riservato. Il tempo che
mi resta lo vivo come un dono prezioso che spero di
meritare.
Le degenze in ospedale, in particolar modo la prima, l'ho vissuta nel
totale abbandono della struttura sanitaria: invisibile e immanente come una divinità
ambigua. La
completa sospensione del tempo che si vive nei ritmi canonici degli ospedali
cadenzati dalle visite, o dalle cure, dagli orari dei pasti, tendono a
spersonalizzazre e, conseguentemente, ad abbandonarsi al controllo del personale
ospedaliero. La propria
esistenza, insomma, viene svilita e spogliata di tutto, raccolta con blanda malinconia
dal dio-dal-camice-bianco. Tanta è l'abitudine a non doversi curare di nulla,
che tutto appare distante ed estraneo, persino la morte che, impalpabile e priva
di connotazione, si insinua nella mente con
semplicità e naturalezza, come se si trattasse di un evento banale, incluso e indistinto tra gli
odori dei medicamenti o nei rumori discreti prima del sonno.
Dal 1980 non vivo più a Roma. Per tre anni ho vissuto a Bologna, mi sono
trasferito ad Arezzo ed infine sono stato catturato dal fascino del Salento,
dove tuttora risiedo. Ogni volta che torno nei luoghi dove ho vissuto, che sia
Roma, Bologna o Arezzo, mi sentivo sempre un estraneo. Di immutato resta una
sensazione trasmessa dalle architetture, dai colori o dagli
odori, qualcosa comunque di immaginario. La sola testimonianza reale della mia
adolescenza la ritrovo nel palazzo dei ferrovieri, a Roma, dove sono nato.
L'appartamento era dei miei nonni materni, ora venduto e
strappato ai miei ricordi, ma il palazzo resta solido e inalterato, come spesso lo
ritrovo nei miei sogni.
Continuo a scrivere poesie, con minore frequenza rispetto alla mia infanzia,
ma con lo stesso pathos e inalterata ingenuità: ancora indago, curiosando nei
meandri della mia mente. Sicuramente amena, se non terapeutica, o addirittura esaltante, è la pittura che, da diversi anni pratico
con entusiasmo. Spero che tra quelle poche persone che osservano i miei lavori ci siaqualcuno a cui riesca a trasmettere la stessa intensità del
mio "sentire". In ogni
caso, grazie.
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